Cosa ci siamo persi

Oggi, viaggiando con la mia motoretta, così ho ribattezzato la Tango, per chilometri, sa solo in mezzo al Sahara, quando la pista non era troppo impegnativa e le difficoltà non mi impegnavano al cento per cento, ho riflettuto ed ho fatto una serie di considerazioni, che a dire il vero, avevo già lasciato scaturire, senza ostacoli e senza limiti, durante il piacevolissimo tratto di avvicinamento in zona predesertica.

Infatti, per arrivare dalla costa Nord della Tunisia al mitico Sahara, è necessario percorrere un po’ di chilometri di trasferimento.
Per coprire i circa quattrocentocinquanta chilometri che separano il porto di La Goulette, dal nostro “parco giochi”, si può scegliere tra tre opzioni di massima:

  1. la discesa autostradale veloce lungo la costa fino a Gabes e poi dritto fino ad una delle note porte del deserto, quali Tozeur o Douz,
  2. percorso turistico tra le città tunisine e poi ingresso nel deserto come sopra,
  3. arrivo a Matmata con una delle modalità sopra descritte e poi ingresso nel Sahara, dal lato Est, attraverso le montagne che separano la porzione sabbiosa del deserto tunisino, prima dal Mediterraneo e poi poi dalla Libia.

Questo approccio, quello che ho scelto per questo viaggio, è il più inusuale tra i fuoristradisti, ma nella sua versione più “soft”, è quello più noto tra i turisti dei villaggi vacanza dell’isola di Jerba e della zona costiere di Monastir, ai quali, alcuni tour operator, offrono la possibilità di esplorare il Sahara, a bordo di mezzi a trazione integrale, condotti da autisti locali, entrando nelle piste, tramite i villaggi di Zarzis, Matmata, Tataouine, Medenine e Chenini.

La prima parte di questo itinerario, si snoda tra spettacolari rocce e bellissime gole scavate dagli elementi naturali, in un materiale arido e severo, con colorazioni che vanno dal giallo chiaro al rosso scuro, a seconda dell’incidenza dei raggi del sole.
L’asfalto, molto grossolano e “magro”, l’incredibile sequenza di curve a ridosso di precipizi e balconate prive di barriere protettive a valle, invitano ad una andatura molto lenta, che per me che conosco il tracciato a menadito, diventa anche rilassante.
Così, lasciando correre la moto, con il motore che frulla allegramente nella frescura del mattino, ondeggiando tra una curva e l’altra, con un procedere cadenzato, quasi sensuale, ho dato il via ad un fiume di pensieri e di considerazioni.

Innanzi tutto, mi accorgo che mi sto divertendo un sacco; da anni, non mi concedevo più questo lusso in terra d’Africa.
Sì, perché in Italia e precisamente sulle stradine intorno a casa, lo faccio spesso.
Per me si tratta quasi di un rito, che segna l’inizio ufficiale della bella stagione.
Salgo in sella alla più piccola delle mie moto e percorro lentamente e senza strappi le stradine delle mie campagne e delle mie montagne; quelle sulle quali viaggiavo con il cinquantino e con il centoventicinque.
Allora, come adesso, senza fretta, con gli stivali, il casco jet, gli occhiali ed i blue jeans.
Profumi, vento in faccia, odori e sensazioni, mi inebriano e mi invitano a scoprire il Mondo, come se fosse la prima volta che mi lancio al galoppo, sulla moto.
Oggi, che di Mondo ne ho visto molto e che mi rendo conto che non mi sarà possibile vederlo tutto, sono ancora più avido di queste sensazioni e goloso di questi aromi.
Il sentirli, ogni anno, mi permette di sentirmi vivo e mi fa pensare al passato.

Ecco quindi, che viaggiando a cinquanta sessanta all’ora, con il vento in faccia (casco jet), affiora il bello del viaggiare in moto.
Nulla di legato alla velocità, alla piega, alla staccata o all’acceleratore; si tratta di una sensazione, o meglio di un insieme di sensazioni, sconosciute alla maggior parte dei motociclisti del giorno d’oggi.
È il godere dei profumi, dei paesaggi, degli odori e dei rumori in cui si viaggia completamente immersi.
Solo le due ruote permettono tutto questo, con l’eccezione dei quad, immettendo il pilota in un mondo precluso a coloro che viaggiano “chiusi in una scatola”, protetti da un vetro ed isolati dal mondo esterno.
Purtroppo, però, nel corso degli anni, tutto questo è andato perduto, o quasi; la ricerca del comfort e delle prestazioni, ci ha portati a velocità, potenze e pesi, che ci precludono l’ingresso in questa dimensione.
Viaggiando “modernamente”, si è troppo, giustamente, concentrati sulla strada in se stessa, in modo tale da non potersi concedere il lusso, di lasciar correre i pensieri, per non parlare di interfono e cuffiette con la musica: oltre all’isolamento dal mondo, anche quello dal motore della propria moto, allora tanto vale andare in tram!
Ovviamente, a questo, si deve aggiungere la necessità di essere protetti e messi in sicurezza, perché a cento all’ora, anche una mosca in faccia, diventa pericolosa, quindi ecco che si è praticamente obbligati a pesanti e complesse armature, che ci rendono simili a guerrieri medievali o ad astronauti in missione spaziale, con impegnativi ed importanti “riti” di vestizione, che spesso ci fanno desistere dal sostare o dal semplice fermarci a parlare o ad osservare un panorama particolare.

Una volta si prendeva la moto per fare in fretta, o per trovare un rimedio alla calura estiva, adesso è il contrario.
Si è arrivati al paradosso, che i viaggi in destinazioni calde, non vengono effettuati in estate.
Ecco, perché a mio avviso, si è assistito al successo delle motociclette custom, che personalmente non mi piacciono, oppure al ritorno della Vespa.
Perché con mezzi di quel genere, è d’obbligo andare adagio, fermarsi spesso, programmare tappe brevi e soprattutto, ci si può sentire “fighi”, senza dover raccontare di mirabolanti viaggi ai confini del pianeta o di percorsi estremi raggiunti rischiando la vita, mentre le pieghe con le scintille e gomito a terra, non vengono neanche prese in considerazione.

Con questo, non voglio rinnegare il piacere derivante dal viaggiare lontano, del piegare allo spasimo, dell’estremo o della competizione, voglio solo ricordare a tutti, questo modo di viaggiare, bello e nobile come tutti gli altri, …provare per credere…ed allora diventa ovvia e naturale l’esclamazione “…ma cosa ci siamo persi!”.

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